Lo sport è un’attività importantissima per i giovani e i meno giovani.
Aiuta il fisico e la mente a ritemprarsi e liberarsi dallo stress del lavoro e
dello studio. Le Olimpiadi moderne nacquero con lo spirito decoubertiniano sintetizzato come “l’importante è partecipare”
e da principio e fino a qualche decennio fa, vi furono ammessi esclusivamente
atleti non professionisti. Poichè i Giochi diventarono in breve una grande
vetrina mondiale, molti Stati, specialmente quelli le cui popolazioni versavano
in condizioni di vita penose, li utilizzarono come strumento di propaganda, per
mascherare i loro problemi interni e dimostrare al mondo intero una potenza
senza eguali. L’escamotage fu quello di arruolare atleti simil professionisti
in corpi militari e paramilitari. Ricordiamo i grandi exploit di URSS e DDR e
la grande incetta di medaglie in un’era in cui la guerra al doping era peraltro
piuttosto limitata. Poi i tempi sono cambiati, l’industria e gli sponsor sono
entrati nel mondo dello sport olimpico e si è annullata la grande ambiguità del
dilettantismo.
Ora gli atleti sono professionisti pagati grazie agli sponsor e alle
partecipazioni alle gare, lo sono quasi dappertutto meno che in Italia in cui
il 63% (l’82% se non si considera
ciclismo, pallanuoto, tennis e pallavolo) degli atleti che hanno preso parte
alle Olimpiadi di Londra sono dipendenti pubblici, appartenenti all’Arma dei
Carabinieri, alla Guardia di Finanza, alla Polizia Penitenziaria, Polizia di
Stato, Esercito, Aeronautica e Marina. Si tratta di 290 persone con contratto a
tempo indeterminato pagate con il denaro dei contribuenti che sono state
selezionate tra un gruppo di alcune migliaia, sempre pagate per allenarsi e
gareggiare e che, quando avranno terminato la loro carriera agonistica
continueranno ad incassare lo stipendio e, potete giurarci, non andranno certo
a regolare il traffico o a fare le guardie carcerarie. Ad occhio e croce, tra
stipendi, staff e strutture se ne vanno alcune centinaia di milioni di euro l’anno, e tutto
questo per vedere ogni quattro anni, nella migliore delle ipotesi, la nostra
bandiera issata sul pennone più alto con annesso l’inno di Mameli (in
alternativa è gradita anche la medaglia di argento o di bronzo perché stare
nella parte alta del medagliere dà prestigio, specie se si è davanti alla
Germania). Che tutto ciò serva alla diffusione dello sport tra le giovani
generazioni ci pone molti dubbi: i bandi emessi dai corpi militari dello Stato
favoriscono l’arruolamento di atleti già accreditati di prestazioni a livello
nazionale, quindi non esiste nè formazione né selezione di massa come sarebbe
auspicabile, magari partendo dalle scuole o dalle università.
Sarebbe bene ripensare un simile apparato e adibirlo a finalità che
superino la mera propaganda di uno Stato che avrebbe bisogno di altro per riconoscersi
e identificarsi sotto la stessa bandiera.