La Trama
Dopo una breve dedica alla bellissima Polia, a cui sembra che il
libro debba giungere, si apre il romanzo vero e proprio.
Polifilo è nella sua stanza, dove trascorre gran parte della
notte agitato da mille pensieri d’amore; quando si addormenta,
egli sogna di trovarsi nei pressi di una spiaggia abbandonata,
che subito lascia per entrare in una fitta selva da cui di nuovo
fugge per timore di qualche pericolo non precisato, arrivando
nei pressi di un piccolo fiume. Vuole berne l’acqua, ma viene
distratto da un canto misterioso. Cercando l’origine del suono,
si ferma sotto una quercia, e di nuovo viene colpito dal sonno,
e sogna.
Nel secondo sogno, completamente contenuto nel primo, il giovane si muove
in un paesaggio ameno, addolcito dalla vegetazione e da
piacevoli colline. Un lupo famelico, che sparisce
immediatamente, preannuncia lo spuntare fra i colli di una
strana costruzione composta da una piramide sormontata da un
obelisco. Polifilo incontra così le prime meraviglie
architettoniche, per metà edifici sapientemente progettati e per
metà rovine. Viene affascinato dalla scultura di un cavallo
alato su cui cercano invano di ergersi alcuni putti; dalla
statua di un elefante su cui si leva un altro obelisco; da
misteriosi geroglifici accompagnati da scritte che in parte li
decifrano. Giunto alla magnifica porta della piramide, descritta
analiticamente, l’attraversa e penetra all’interno di quello che
sembra essere un tempio. Un drago, venuto dalle tenebre, gli
vieta di ripercorrere il cammino intrapreso e lo spinge ancor
più verso il fondo, un intricato reticolo di locali oscuri al
termine del quale egli riesce con grande sollievo a scoprire
un’uscita.
La nuova regione che Polifilo esplora sembra accogliente e ricca. Altre
antichità e altri geroglifici si offrono al suo sguardo; presso
una fontana ornata in modo splendido avviene l’incontro con
cinque ninfe, a loro volta sorprese per la sua presenza. Dai
nomi delle fanciulle deduciamo che si tratta di un’allegoria dei
cinque sensi: esse lo conducono alle terme, dove, in un ambiente
magnifico e sensuale, si spogliano davanti al giovane che
insieme a loro si bagna. Poi, benché le ninfe si indispettiscano
nell’udire che Polifilo significa amante di Polia e non amante
di molte, egli viene condotto al cospetto della signora di quel
luogo, Eleuterillide, ovvero il Libero Arbitrio. Dopo aver
ammirato un sontuoso banchetto, allietato da un ballo ispirato
al gioco degli scacchi, il protagonista viene esortato dalla
regina a proseguire il suo viaggio alla ricerca di Polia,
indirizzando i propri passi verso il reame di Telosia (la Causa
Finale, o meglio la Provvidenza). L’accompagneranno, almeno fino
alle tre porte che segnano il passaggio da una terra all’altra,
due figure femminili: Logistica (la Razionalità) e Telemia (la
Volontà). Polifilo, ubbidiente, ha innanzitutto modo di ammirare
all’interno dei possedimenti di Eleutirillide un giardino di
vetro, un labirinto d’acque e un giardino di seta, prima di
venir portato al cospetto di una piramide posta sopra un cubo,
che richiama la sua attenzione sulle qualità trinitarie
dell’Essere. Lasciate tali visioni, il terzetto approda alle
famose porte, ciascuna delle quali è distinta da una scritta:
Gloria di Dio, Madre dell’Amore, Gloria del Mondo. Oltre ogni
porta sta un gruppo di sei donne governate da una matrona.
Nonostante i suggerimenti di Logistica, il giovane decide
proprio a favore della via centrale. Mentre Logistica se ne va
indignata, Telemia, soddisfatta, abbraccia teneramente Polifilo
rivelandogli che presto ritroverà Polia; quindi si allontana a
sua volta. Le sei dame della porta prescelta, capeggiate da
Filtronia (Pozione d’Amore), hanno tutte appellativi che
richiamano l’innamoramento e le sue premesse sensibili. Il
giovane, rimasto ancora una volta solo, vede avvicinarsi una
graziosa ninfa recante con sé una torcia, e capisce di aver
incontrato la compagna del suo cammino.
Insieme vagano per il dominio di Venere, incrociando quattro processioni
trionfali illustrate dagli amori di Giove per quattro donne
mortali, Europa, Leda, Danae e Semele. Dopo una lunga rassegna
delle immagini relative alle passioni celesti, la coppia
attraversa i Campi Elisi, dove si trovano le eroine concupite
dagli antichi dèi. Mentre Polifilo si invaghisce sempre più
dell’aspetto gentile della sua guida, il trionfo agreste di
Pomona e Vertumno introduce i due alla celebrazione di un culto
priapico, in cui viene sgozzato un asino. Poi, ecco il tempio
dedicato alla Venere Naturale o Terrestre: qui, Polifilo prende
parte ad una complessa cerimonia officiata da un’anziana
sacerdotessa. La ninfa spegne la torcia in una cisterna, e
finamente si rivela: ella è Polia, l’amata di Polifilo, a lui
finalmente ricongiunta.
La felicità del protagonista è immensa, ma i doveri cerimoniali
incombono: è una specie di Santa Messa che si conclude fra
miracolose fioriture di rose nate dal sangue. Terminati i riti,
i due innamorati vanno ad esplorare le rovine di un antico
santuario che ospita un cimitero colmo di lapidi di amanti
morti. Attraversandolo, dopo aver contemplato un dipinto in cui
si descrivono i regni dell’oltretomba e le punizioni inflitte a
chi ha travalicato le leggi di amore, si giunge finalmente al
mare, dove la nave di Cupido attende entrambi per imbarcarli
verso Citera. Arrivati sull’isola, Polia e Polifilo partecipano
al trionfo di Amore, che li conduce ad un anfiteatro. Al suo
centro si trova la fontana di Venere, in cui sta la Divina Madre
occultata da una cortina. Cupido offre agli innamorati una
freccia d’oro grazie a cui penetrare il velame; Polifilo esegue,
e Venere appare. Segue un matrimonio mistico fra i due giovani,
benedetto dalla divinità e sancito dalla ferita di entrambi,
trafitti dalla medesima freccia. L’arrivo di Marte armigero, che
si concede agli amplessi della dea, chiude bruscamente
l’episodio. Polia e Polifilo escono dall’anfiteatro, insieme a
numerose ninfe. Giunti presso un’altra fonte, le stesse ninfe
raccontano del sepolcro di Adone e di come Venere ogni anno lo
pianga e lo ricordi. Poi, viene chiesto a Polia di narrare
l’origine della sua stirpe e del suo amore. Qui termina la prima
parte o il primo libro dell’Hypnerotomachia.
La seconda sezione inizia appunto con il racconto di Polia, che dichiara
d’essere nata a Treviso, discendente da un nobile romano
chiamato Lelio Syliro. Segue una bizzarra favola, che associa la
prole di Lelio e della sua sposa Trivisia Calardia Pia ai luoghi
della campagna trevigiana, e nel contempo ricorda l’ira di
Venere, che distrusse la casata per punire il sacrilegio della
primogenita di Lelio, Morgania, tanto presuntuosa da paragonare
se stessa alla dea dell’amore. Ma il vero nome di Polia sarebbe
Lucrezia (Lucrezia Lelli, dunque); ella infatti dichiara di
chiamarsi come l’intrepida moglie che si uccise dopo aver subìto
violenza dal figlio di Tarquinio il Superbo (la parola Lucrezia,
tuttavia, non appare mai a chiare lettere). Nel 1462 Polifilo la
vide, bellissima e nel fiore degli anni, e se ne innamorò
perdutamente, senza peraltro essere ricambiato. Quando la peste
colpì Treviso, Lucrezia / Polia fece il voto di servire per
sempre Diana, se il morbo l’avesse risparmiata. Questo avvenne,
ed ella entrò nel tempio della dea; ma qui venne ritrovata dal
disperato Polifilo. Ai nuovi rifiuti da lei opposti, il giovane
cadde come morto davanti ai suoi occhi. Finalmente la fanciulla,
ammonita da una serie di terribili visioni che illustravano la
punizione degli amanti ingrati, e ben consigliata da una
nutrice, decise di risvegliare il poveretto con un bacio.
Sorpresi dalla sacerdotessa di Diana e cacciati, i due si
rifugiarono presso il tempio rivale di Venere, dove furono
benedetti dalla sacerdotessa di Amore. Così finisce il racconto.
Le ninfe soddisfatte se ne vanno, e la felicità sembra
trionfare. Purtroppo, quando Polifilo tenta di abbracciare
quella che ormai è la sua donna, ella scompare pronunciando un
ultimo saluto. Il giovane si risveglia e ricambia tristemente
l’addio. È l’alba, il sogno è terminato: siamo a Treviso, il
primo maggio del 1467. Segue un epitaffio in latino di Polia, in
cui si rammenta che ella, benché sepolta, vive ancora.
Ecco la traduzione: ‘‘Felice Polia, che sei sepolta eppure vivi,
Polifilo, riposando da Marte e dalle sue imprese, fece sì che tu
vegliassi anche assopita.’’ Questo struggente epilogo
prelude ad una serie di versi assemblati come una lapide antica.
Essi dicono: ‘‘Viandante, ti prego, fa una breve sosta. Qui
c’è il miropolio, il negozio dei profumi della ninfa Polia.
Quale Polia, dirai tu? Quel fiore da cui nasce il profumo di
ogni virtù, meraviglioso fiore che, per l’aridità del luogo, non
può di nuovo germogliare, malgrado le lacrime sempre nuove di
Polifilo. Ma se tu mi vedessi fiorire, ammireresti un’immagine
che vince in bellezza ogni altra, e diresti: - O sole, quel che
il tuo ardore aveva risparmiato, l’ombra è riuscita ad uccidere.
- Ahimè, Polifilo, desisti: un fiore tanto disseccato non
rivivrà mai più. Addio.’’
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