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Il Parco dei Mostri di Bomarzo
L’Hypnerotomachia Poliphili
(Battaglia d'amore in sogno di Polifilo)




La copertina del libro

  La Hypnerotomachia Poliphili ("Battaglia d'amore in sogno di Polifilo") fu pubblicata nel 1499 dal tipografo veneziano Aldo Manuzio in un'edizione preziosa per la bellezza dei caratteri tipografici e per lo splendore delle xilografie (attribuite a vari pittori tra cui Mantegna, Bellini, Raffaello).
  Sia per quanto riguarda l'identificazione dell'autore che per i suoi caratteri, questa opera si presenta come un vero enigma: per quanto concerne l'autore, siamo certi del suo nome perché l'acrostico formato dalla lettera iniziale della prima parola dei 38 capitoli consente di leggere "poliam frater franciscus columna peramavit" ("Frate Francesco Colonna amò moltissimo Polia"). È indubbio che il protagonista Polifilo, innamorato di Polia, e l'autore del romanzo sono una persona sola. Francesco Colonna fu probabilmente un frate domenicano di Treviso, morto a Venezia nel 1517. Maurizio Calvesi (nel libro Il sogno di Polifilo prenestino, Roma, Officina, 1980) ha sostenuto che l'autore potrebbe identificarsi in un Francesco Colonna dell'illustre famiglia di Roma, nato intorno al 1430, signore di Palestrina, educato all' Accademia Romana di Pomponio Leto.
 
 

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La Trama

Dopo una breve dedica alla bellissima Polia, a cui sembra che il libro debba giungere, si apre il romanzo vero e proprio. Polifilo è nella sua stanza, dove trascorre gran parte della notte agitato da mille pensieri d’amore; quando si addormenta, egli sogna di trovarsi nei pressi di una spiaggia abbandonata, che subito lascia per entrare in una fitta selva da cui di nuovo fugge per timore di qualche pericolo non precisato, arrivando nei pressi di un piccolo fiume. Vuole berne l’acqua, ma viene distratto da un canto misterioso. Cercando l’origine del suono, si ferma sotto una quercia, e di nuovo viene colpito dal sonno, e sogna.
  Nel secondo sogno, completamente contenuto nel primo, il giovane si muove in un paesaggio ameno, addolcito dalla vegetazione e da piacevoli colline. Un lupo famelico, che sparisce immediatamente, preannuncia lo spuntare fra i colli di una strana costruzione composta da una piramide sormontata da un obelisco. Polifilo incontra così le prime meraviglie architettoniche, per metà edifici sapientemente progettati e per metà rovine. Viene affascinato dalla scultura di un cavallo alato su cui cercano invano di ergersi alcuni putti; dalla statua di un elefante su cui si leva un altro obelisco; da misteriosi geroglifici accompagnati da scritte che in parte li decifrano. Giunto alla magnifica porta della piramide, descritta analiticamente, l’attraversa e penetra all’interno di quello che sembra essere un tempio. Un drago, venuto dalle tenebre, gli vieta di ripercorrere il cammino intrapreso e lo spinge ancor più verso il fondo, un intricato reticolo di locali oscuri al termine del quale egli riesce con grande sollievo a scoprire un’uscita.
  La nuova regione che Polifilo esplora sembra accogliente e ricca. Altre antichità e altri geroglifici si offrono al suo sguardo; presso una fontana ornata in modo splendido avviene l’incontro con cinque ninfe, a loro volta sorprese per la sua presenza. Dai nomi delle fanciulle deduciamo che si tratta di un’allegoria dei cinque sensi: esse lo conducono alle terme, dove, in un ambiente magnifico e sensuale, si spogliano davanti al giovane che insieme a loro si bagna. Poi, benché le ninfe si indispettiscano nell’udire che Polifilo significa amante di Polia e non amante di molte, egli viene condotto al cospetto della signora di quel luogo, Eleuterillide, ovvero il Libero Arbitrio. Dopo aver ammirato un sontuoso banchetto, allietato da un ballo ispirato al gioco degli scacchi, il protagonista viene esortato dalla regina a proseguire il suo viaggio alla ricerca di Polia, indirizzando i propri passi verso il reame di Telosia (la Causa Finale, o meglio la Provvidenza). L’accompagneranno, almeno fino alle tre porte che segnano il passaggio da una terra all’altra, due figure femminili: Logistica (la Razionalità) e Telemia (la Volontà). Polifilo, ubbidiente, ha innanzitutto modo di ammirare all’interno dei possedimenti di Eleutirillide un giardino di vetro, un labirinto d’acque e un giardino di seta, prima di venir portato al cospetto di una piramide posta sopra un cubo, che richiama la sua attenzione sulle qualità trinitarie dell’Essere. Lasciate tali visioni, il terzetto approda alle famose porte, ciascuna delle quali è distinta da una scritta: Gloria di Dio, Madre dell’Amore, Gloria del Mondo. Oltre ogni porta sta un gruppo di sei donne governate da una matrona. Nonostante i suggerimenti di Logistica, il giovane decide proprio a favore della via centrale. Mentre Logistica se ne va indignata, Telemia, soddisfatta, abbraccia teneramente Polifilo rivelandogli che presto ritroverà Polia; quindi si allontana a sua volta. Le sei dame della porta prescelta, capeggiate da Filtronia (Pozione d’Amore), hanno tutte appellativi che richiamano l’innamoramento e le sue premesse sensibili. Il giovane, rimasto ancora una volta solo, vede avvicinarsi una graziosa ninfa recante con sé una torcia, e capisce di aver incontrato la compagna del suo cammino.
  Insieme vagano per il dominio di Venere, incrociando quattro processioni trionfali illustrate dagli amori di Giove per quattro donne mortali, Europa, Leda, Danae e Semele. Dopo una lunga rassegna delle immagini relative alle passioni celesti, la coppia attraversa i Campi Elisi, dove si trovano le eroine concupite dagli antichi dèi. Mentre Polifilo si invaghisce sempre più dell’aspetto gentile della sua guida, il trionfo agreste di Pomona e Vertumno introduce i due alla celebrazione di un culto priapico, in cui viene sgozzato un asino. Poi, ecco il tempio dedicato alla Venere Naturale o Terrestre: qui, Polifilo prende parte ad una complessa cerimonia officiata da un’anziana sacerdotessa. La ninfa spegne la torcia in una cisterna, e finamente si rivela: ella è Polia, l’amata di Polifilo, a lui finalmente ricongiunta.
  La felicità del protagonista è immensa, ma i doveri cerimoniali incombono: è una specie di Santa Messa che si conclude fra miracolose fioriture di rose nate dal sangue. Terminati i riti, i due innamorati vanno ad esplorare le rovine di un antico santuario che ospita un cimitero colmo di lapidi di amanti morti. Attraversandolo, dopo aver contemplato un dipinto in cui si descrivono i regni dell’oltretomba e le punizioni inflitte a chi ha travalicato le leggi di amore, si giunge finalmente al mare, dove la nave di Cupido attende entrambi per imbarcarli verso Citera. Arrivati sull’isola, Polia e Polifilo partecipano al trionfo di Amore, che li conduce ad un anfiteatro. Al suo centro si trova la fontana di Venere, in cui sta la Divina Madre occultata da una cortina. Cupido offre agli innamorati una freccia d’oro grazie a cui penetrare il velame; Polifilo esegue, e Venere appare. Segue un matrimonio mistico fra i due giovani, benedetto dalla divinità e sancito dalla ferita di entrambi, trafitti dalla medesima freccia. L’arrivo di Marte armigero, che si concede agli amplessi della dea, chiude bruscamente l’episodio. Polia e Polifilo escono dall’anfiteatro, insieme a numerose ninfe. Giunti presso un’altra fonte, le stesse ninfe raccontano del sepolcro di Adone e di come Venere ogni anno lo pianga e lo ricordi. Poi, viene chiesto a Polia di narrare l’origine della sua stirpe e del suo amore. Qui termina la prima parte o il primo libro dell’Hypnerotomachia.
  La seconda sezione inizia appunto con il racconto di Polia, che dichiara d’essere nata a Treviso, discendente da un nobile romano chiamato Lelio Syliro. Segue una bizzarra favola, che associa la prole di Lelio e della sua sposa Trivisia Calardia Pia ai luoghi della campagna trevigiana, e nel contempo ricorda l’ira di Venere, che distrusse la casata per punire il sacrilegio della primogenita di Lelio, Morgania, tanto presuntuosa da paragonare se stessa alla dea dell’amore. Ma il vero nome di Polia sarebbe Lucrezia (Lucrezia Lelli, dunque); ella infatti dichiara di chiamarsi come l’intrepida moglie che si uccise dopo aver subìto violenza dal figlio di Tarquinio il Superbo (la parola Lucrezia, tuttavia, non appare mai a chiare lettere). Nel 1462 Polifilo la vide, bellissima e nel fiore degli anni, e se ne innamorò perdutamente, senza peraltro essere ricambiato. Quando la peste colpì Treviso, Lucrezia / Polia fece il voto di servire per sempre Diana, se il morbo l’avesse risparmiata. Questo avvenne, ed ella entrò nel tempio della dea; ma qui venne ritrovata dal disperato Polifilo. Ai nuovi rifiuti da lei opposti, il giovane cadde come morto davanti ai suoi occhi. Finalmente la fanciulla, ammonita da una serie di terribili visioni che illustravano la punizione degli amanti ingrati, e ben consigliata da una nutrice, decise di risvegliare il poveretto con un bacio. Sorpresi dalla sacerdotessa di Diana e cacciati, i due si rifugiarono presso il tempio rivale di Venere, dove furono benedetti dalla sacerdotessa di Amore. Così finisce il racconto. Le ninfe soddisfatte se ne vanno, e la felicità sembra trionfare. Purtroppo, quando Polifilo tenta di abbracciare quella che ormai è la sua donna, ella scompare pronunciando un ultimo saluto. Il giovane si risveglia e ricambia tristemente l’addio. È l’alba, il sogno è terminato: siamo a Treviso, il primo maggio del 1467. Segue un epitaffio in latino di Polia, in cui si rammenta che ella, benché sepolta, vive ancora.
  Ecco la traduzione: ‘‘Felice Polia, che sei sepolta eppure vivi, Polifilo, riposando da Marte e dalle sue imprese, fece sì che tu vegliassi anche assopita.’’ Questo struggente epilogo prelude ad una serie di versi assemblati come una lapide antica. Essi dicono: ‘‘Viandante, ti prego, fa una breve sosta. Qui c’è il miropolio, il negozio dei profumi della ninfa Polia. Quale Polia, dirai tu? Quel fiore da cui nasce il profumo di ogni virtù, meraviglioso fiore che, per l’aridità del luogo, non può di nuovo germogliare, malgrado le lacrime sempre nuove di Polifilo. Ma se tu mi vedessi fiorire, ammireresti un’immagine che vince in bellezza ogni altra, e diresti: - O sole, quel che il tuo ardore aveva risparmiato, l’ombra è riuscita ad uccidere. - Ahimè, Polifilo, desisti: un fiore tanto disseccato non rivivrà mai più. Addio.’
 
 

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